Una teologia di soli uomini è una mezza teologia perché, tenendosi a distanza dalle teologie delle donne, finge di essere intera, neutra e autosufficiente. Per misurare tale distanza, basta scorrere le bibliografie dei testi teologici più consultati e contare i nomi di donne, o cercare e non trovare quasi mai i classici delle teologie femministe nei programmi delle Facoltà teologiche, o mettersi a studiare Culda – la profetessa biblica che papa Francesco ha ricordato all’udienza quale interprete autorevole del testo ritrovato sotto le mura del Tempio –, scoprendo che gli studi su di lei sono pochi e non tradotti. Va detto che non è facile per una donna – ma ciò vale per ogni persona laica – vivere di teologia: quando la fede, o l’amore, si ferma prima di toccare le tasche, dice papa Francesco, è perché «manca qualcosa». In questa prospettiva, l’incompatibilità tra la teologia e la vita non riguarda solo l’aggiornamento e l’inclusività dei programmi: si tratta anche di condizioni materiali, nel senso più nobile del termine: del tempo, degli spazi e delle risorse economiche a disposizione.
È di questo interruttore che le teologhe oggi ci parlano. Non tutte le donne sono sensibili a queste considerazioni: alcune restano convinte di essere comprese nel discorso anche quando è tutto al maschile e continuano a non spiegarsi la ragione degli squilibri di genere, altre si lasciano spegnere dai poteri che maliziosamente descrivono il femminismo come una lotta delle donne contro gli uomini, altre ancora non si espongono in questo senso perché temono di pagare un prezzo a livello personale, accademico o ecclesiale.
«Ci sono cose che solo le donne intuiscono», dice papa Francesco. Va bene. L’importante, però, è non aver già deciso quali siano queste cose e non scartare a priori i temi più scomodi di cui le donne parlano. Altrimenti, ancora una volta, a risuonare sarà l’eco di una mezza teologia che non ha il coraggio di accendere la luce e che, meschinamente, si nasconde dietro alla paura di far saltare la corrente.
