Camminava per le strade di Firenze con un’andatura leggera, quasi timida.
Ma dietro quel volto gentile si nascondeva una forza che pochi uomini pubblici hanno mai avuto: la forza della compassione concreta.
Negli anni ’50, Giorgio La Pira, professore di diritto e uomo di fede profonda, divenne sindaco di una città che portava ancora addosso le ferite della guerra.
C’erano disoccupati, sfratti, fabbriche chiuse, e famiglie intere che vivevano nelle baracche lungo l’Arno.
Molti dicevano che servivano soldi, non sogni.
Ma La Pira rispose con la mitezza di chi crede davvero:
«La città è una famiglia, e nessuno dev’essere lasciato fuori casa.»
E non era una frase. Era un programma.
Riaprì fabbriche in crisi come la Pignone, convincendo lo Stato e gli imprenditori a salvare i posti di lavoro.
Andava di persona a parlare con gli operai, e li chiamava “fratelli”.
Aprì mense e dormitori, lottò contro gli sfratti, fece costruire case popolari dove prima c’erano solo rovine.
Quando non bastavano i fondi comunali, bussava alle porte dei ministeri, dei vescovi, perfino degli ambasciatori.
Credeva che la politica dovesse servire, non dominare.
Che la carità fosse l’altra faccia della giustizia.
Che un sindaco potesse parlare di pace e pane nello stesso respiro.
Nel 1955, organizzò a Firenze i “Colloqui per la pace”, riunendo rappresentanti di paesi che non si parlavano più dopo la guerra.
Cercava ponti, non confini.
E nel farlo, trasformò Firenze in un simbolo di dialogo, fraternità e dignità umana.
Morì nel 1977, in povertà, come aveva vissuto.
Non possedeva nulla, se non la stima dei poveri e il rispetto anche dei suoi avversari.
Nel 1986, la Chiesa aprì il processo di beatificazione per le sue virtù eroiche.
Di lui restano frasi che sembrano preghiere civili:
“La città è la casa di tutti. Se uno solo è senza pane o senza tetto, la città non è più città.”
E forse è per questo che, ancora oggi, a Firenze qualcuno lascia un fiore sulla porta del suo vecchio studio.
Perché ci sono uomini che non governano: custodiscono.
