Il Regno di Dio non è paragonato al seme, ma alla storia del seme; la parabola è teologica: è rivelazione prima che avvertimento. Nell’ambito del Regno di Dio i criteri di grandezza e dell’apparenza non servono per valutare ciò che conta e ciò che non conta. I discepoli non devono fare propri i criteri del mondo, inseguendo sogni di grandezza e valutando la realtà secondo criteri di giustizia umana. Al contrario, la parabola è un richiamo al valore decisivo delle occasioni normali, umili e quotidiane, che formano il tessuto individuale della vita. Il regno di Dio è qui, in questa realtà.

L’evento di Gesù, e ancor oggi il Vangelo nel mondo, può sembrare piccola cosa, ma non è così. Di qui l’avvertimento: non bisogna lasciarsi sedurre dalla grandezza, nè farsi abbattere dalla piccolezza. La forza del Vangelo è diversa da quella del mondo; diversa perché nascosta, mentre la potenza mondana si ostenda; e diversa perché straordinaria, al si sopra di qualsiasi possibilità mondana e umana…

“Signore è questo il tempo in cui ristabilirai il regno d’Israele?”… Non spetta a voi conoscere i tempi…” (At 1, 6-7).

Questa domanda e risposta, ci invita a leggere e a valutare la storia secondo la logica paradossale di Dio, cioè a recuperare quali valori autentici, l’universalittà, l’unità, ma anche la piccolezza, la povertà, la sapienza del Vangelo contrastando la visione che, della storia, ha la mentalità mondana.

La storia degli uomini fa scena, cerca la gloria, il successo, il riconoscimento dell’opinione pubblica, la stima e l’apprezzamento degli uomini. Le opere di Dio, invece, non fanno storia in questo modo; la storia di Dio si inserisce e agisce nella storia umana, ma non è appariscente, trionfalistica (il nascondimento nella vita di Maria, la “povertà” nei santi e in don Alberione). E’ quest’ultima la vera storia, quella che il nostro Dio considera importante, valida, che ha peso, anche se nascosta, sconosciuta. Siamo invitati a contemplare, alla luce della Parola, le opere  e la storia di Dio, e a fare un bilancio schietto, verificando se l’impostazione della nostra vita  e del nostro apostolato è secondo la sapienza di Dio. Cioè il regno di Dio è trascurabile e allora carico di significati; è poco appariscente e allora presente e operante; è svalutato e trascurato perciò attuale. L’umiltà della situazione non deve divenire motivo di trascuratezza e di rifiuto: trascurando realtà che sembrano senza importanza, si rischia di respingere occasioni feconde e valide dalle conseguenze incalcolabili: trascurando la quotidianità e la legge dell’incarnazione (“andate in Galilea”) si perde l’appuntamento con il Regno: il cristianesimo si inserisce nella vita…

Ci si può, comunque,  illudere che, imponendosi all’attenzione, avendo un peso sul piano delle realtà umane, facendo parlare di sè… si presti un servizio per la salvezza del regno. E non ci si accorge che, nell’ambito del regno di Dio, i criteri della grandezza e del successo non servono per valutare ciò che conta o no: i discepoli non devono fare propri i criteri del mondo, inseguendo sogni di grandezza e confondendo la forza del Regno con il fascino del potere.

Spesso pensiamo che questa logica evangelica mortifichi troppo la nostra sensibilità, invece si tratta di una grande illuminazione e sapienza, soprattutto quando ci troviamo nella situazione di non poter più svolgere l’attività apostolica con efficienza, e risulta impostante tenere viva la consapevolezza che l’apostolato non è solo il fare, oppure  solo nell’attività che dà risultati, ma se vissuto e offerto con fede, tutto è apostolato: anche la malattia, la vecchiaia, la fatica nel “portare con amore i pesi gli uni degli altri”. I nostri padri nella fede e nel carisma ci ricordano continuamente che l’attività apostolica, le nostre comunità non devono lasciarsi tentare da certi successi, ma devono restare sempre umili e semplici: dalla piccolezza e povertà scaturisce la vera potenza (“partire da Betlemme…” – don Alberione,  S. Teresina di G. B.).

Il messaggio profondo di Atti 1, 13-14, cioè la descrizione di come gli undici apostoli hanno fatto esperienza dell’abbattimento delle loro sicurezze (per questo uniti in un clima di preghiera umile) ci vuol far capire che non basta non cercare la gloria e il successo mondani: bisogna accettare che questa gloria e i riconoscimenti umani ci vengano a mancare e ci siano tolti... Avvenne così per Cristo stesso: Egli non solo non cercò la propria gloria (cfr. Gv 8,50), ma accettò che la sua gloria fosse distrutta dagli uomini ed egli fosse “disprezzato e reietto dagli uomini” (Is 53,3). Vincere la tentazione del trionfalismo, del successo… è una lotta che dura tutta la vita e si estende ad ogni aspetto della vita e deve intervenire il Signore stesso per poter aderire a questa sapienza. Esperienza dei “passi falsi di Abramo stesso, padre nella fede, Giuseppe “venduto dai fratelli”, le “umiliazioni” di Anna, Elisabetta, gli “espropri” nella vita di Maria, la “croce” di Cristo, come Cristo ha “formato” i discepoli (li ha resi “poveri”), “la spina nella carne” per S.Paolo, “le prove” nella vita di don Alberione e in pratica di tutti santi che ci aiutano ad accettare con viva fede e gratitudine certe prove permesse dal Signore perché ci vuole bene e liberi…