
Quattro donne sono state riconosciute dottore della Chiesa. Il filo rosso che le lega è quello dell’esperienza mistica e della profezia. Di Ildegarda sappiamo che fu votata a Dio piccolissima. Per noi è impensabile consegnare a un eremo una bimba di otto anni. Eppure il contesto che l’accolse e l’educò ne favorì le doti straordinarie. Sì perché abbiamo a che fare con una visionaria nel senso più pieno, con una donna per così dire travagliata dallo straordinario. E poiché ai suoi tempi era assai sottile il confine tra stregoneria ed esperienza mistica, il suo corpo ha finito con il ribellarsi. Giovane monaca resta paralizzata sino a quando il discernimento operato su di lei le riconosce il carisma profetico. Ecco, Ildegarda è profetessa che alle ardite visioni unisce una conoscenza enciclopedica. La vediamo cimentarsi in tutti gli ambiti delle scienze allora conosciute: Scrittura, teologia, anatomia, medicina, farmacologia, astronomia, gemmologia, musica, poesia … insomma, chi più ne ha ne metta.
Fondatrice di un monastero autonomo, tesse le sponde del Reno predicando nelle cattedrali che vi si affacciano. Interlocutrice di papi e imperatori non esita a denunciare le piaghe della Chiesa.
La si può considerare pazza o posseduta. E pazza di certo è alla maniera in cui Francesco di Assisi, un secolo dopo, si definirà nella modalità sua di sequela di Cristo un “novello pazzo”.
La pazzia indica una condizione borderline, e uso il termine nel senso letterale dello stare su un confine, quello tra l’umano e il divino, del situarsi nella concretezza della propria e altrui storia e protendersi verso Dio facendogli totalmente spazio sino ad essere e apparire appunto sulla soglia, in qualche modo anormali, perciò capaci di parole eclatanti, forti, profetiche nella misura in cui mostrano il presente nelle sue contraddizioni e perciò spingono la Chiesa alla riforma. Un solo esempio. Già anziana, Ildegarda da ospitalità nel cimitero del monastero ad un uomo scomunicato, che alla fine della sua vita si è pacificato con la Chiesa. Non ne accettano la riconciliazione gli ecclesiastici del luogo che vorrebbero ne disseppellisse il cadavere. Ildegarda rifiuta, si appella al papa e vince la causa, ma per un lunghissimo tempo sul monastero graverà l’interdetto. Le monache saranno private di tutto ciò che caratterizza la loro vita: liturgia, assistenza spirituale, suono delle campane… La lotta intrapresa ne accelera la morte. L’episodio ci dice la capacità sua di donna di opporsi all’ingiustizia, rischiando certo, ma testardamente allineata sul primato della giustizia e della misericordia.
Ildegarda sottopone il suo primo testo profetico, lo Scivias, a Bernardo di Chiaravalle, monaco rancoroso e partigiano, inflessibile con quanti non ne condividono il pensiero. Ma tutte mistiche di cui parliamo in un modo o nell’altro devono sottoporsi al giudizio clericale e maschile. Paradossalmente solo per questa via acquisiscono autorevolezza e, benché donne, hanno diritto alla parola.
Avviene così anche a Caterina da Siena, donna singolarissima, anch’essa interlocutrice di imperatori e papi. Ma, a differenza di Ildegarda, non ha avuto altri maestri che lo Spirito. Deve a lui la scienza che trasborda dai suoi scritti. L’agiografia dice che a un certo punto fu in grado di leggere e scrivere senza avere avuto maestri. Terziaria domenicana vive in una situazione a mezzo tra secolarità e vita religiosa. Membro di una numerosissima famiglia ne delude le aspettative di un vantaggioso matrimonio. La sua influenza e la sua parola inquietano l’ordine domenicano che le invia quale “inquisitore” un saggio confratello. Raimondo da Capua, poi generale dell’ordine, esaminandola, diventerà suo fedelissimo seguace.
Difficile compendiare in poche righe l’influenza che questa donna ha avuto nella Chiesa del suo tempo. Si è portata in Francia per convincere il papa a ritornare a Roma. Lacerante, fuori le righe, la sua passione per la pace. Commovente la sua fedeltà al papa, indicato secondo la teologia del tempo quale “dolce Cristo in terra”.
Caterina sperimenta le vette ardite delle nozze mistiche. Non solo la transverberazione, ossia il vivere nell’estasi l’esperienza del cuore trafitto dal dardo dell’amore divino – come avverrà a Teresa d’Avila -ma addirittura lo scambio dei cuori tra lei e Cristo sposo. Sicuramente anoressica, si nutre della sola eucaristia e si strugge d’amore per la Chiesa.
Teresa d’Avila ci ha lasciato anch’essa una ricca produzione letteraria che ne illustra la vicenda riformatrice e il percorso mistico. I chierici contemporanei non l’hanno amata, anzi osteggiata. Emblematico il giudizio su di lei espresso dal nunzio pontificio in Spagna: «Femmina inquieta, errante, disobbediente e ribelle che sotto il titolo di devozione, inventa male dottrine, andando fuori di clausura contro l’ordine del concilio tridentino e dei prelati, insegnando come maestra contro quello che san Paolo ha raccomandato ordinando alle donne di non insegnare».
Pazze sinché si vuole, ma lucidamente consapevoli di doversi adoperare per una intelligenza sapida dell’evangelo. Ma anche tormentate intimamente dinanzi al pericolo di una insidia diabolica. Parossistico il bisogno di Teresa d’essere assicurata circa la soprannaturalità del proprio vissuto. Resta però emblematica nel suo denunciare quanto ha sofferto perché donna. Si augura infatti un tempo in cui le donne siano giudicate non a partire da un pregiudizio misogino, ma per il loro valore.
Teresa di Lisieux sembra davvero fuori il turbine sconvolgente di queste sue sorelle. Ma non è pazzia volersi chiudere nel Carmelo a quindici anni? Addirittura recarsi a Roma per averne il permesso dal papa? E proprio a Roma lei e la sorella infrangono i divieti, pena la scomunica, entrando in luoghi interdetti alle donne, non senza una punta di rivolta.
Di Teresa “dottore” e della sua “piccola via” si è tanto scritto. Mi piace ricordare quel passaggio in cui nel vortice delle vocazioni che vorrebbe far sue, prima d’arrendersi alla più ovvia – l’amore – dice che sentiva anche la vocazione a esser prete.
Piccola martire di una comunità rigorosa, sapiente interprete di un Dio misericordioso a cui si immola, anche lei vive alle frontiere di una pazzia che, a riandare al significato che il termine ha nella lingua greca, alla fine indica una persona “posseduta”. Nel nostro caso si tratta di donne possedute da Dio. Ovvero di donne che hanno scelto di farsi “invadere” da Dio aprendosi al suo amore oltre ogni ragionevole limite. Donne non rinunciatarie, ma prepotentemente attive. Donne sagge, sapienti il cui magistero ci interpella a tutt’oggi.
di Cettina Militello
Teologa, vice-presidente della Fondazione Accademia Via Pulchritudinis ETS