Nessuno creda che si possa staccare la poesia dalla vita; la poesia non è un esercizio letterario, e tanto meno la vita è accademia.
La nostra, poi, questa che ci è toccata in sorte,
pare che porti i segni di una maledizione.
Intendo, di questo nostro modo di vivere, di queste furiose ideologie e feroci politiche.
Da qui il grido della disperazione che sale dalla moltitudine. E allora non solo il poeta, ma chiunque è appena sensibile, è voce di quel grido; e se è appena sincera poesia, essa è gemito di tutti.
Ma è giusto cantare solo il negativo del mondo?
E possibile che non ci sia ancora speranza?
Che non ci sia del bene e che l’umano non esista?
Io ricordo il «TUTTO È GRAZIA!» di Bernanos e ci credo. E allora? Questo è appunto il fondo del discorso.
La gloria del Cristo è la sua stessa morte.
Bisogna che la teologia della croce non resti un capitolo di vita intimistica, per il devoto, essa è la vera teologia della storia: bisogna che diventi un fatto popolare, un fatto di coscienza universale. Non ci sono altre illuminazioni.
Bisogna che l’uomo riconosca la sua sconfitta; gridare forte che questa non è una civiltà umana;
e anche la religione, per il tanto che ha accettato il “sistema” può finire con l’essere il coperchio della stessa bara.
Allora non resta che puntare sulla resurrezione attraverso la morte del mondo. «Voi non siete del mondo», cioè i credenti non possono essere del sistema; essi sono nel sistema ma non del sistema. Ma è una posizione scomoda. Io posso dire di sperare più di voi; ma la mia speranza non è «umana»; anzi, essa nasce precisamente dalla cenere quotidiana di queste speranze, che appunto ci illudono e ci impediscono di vedere, con occhi di fede, il vero dramma dell’uomo.
La nostra lotta «è contro i reggitori di queste tenebre». Ed è così che la poesia quando è vera
è un atto di fede, un atto di vera religione, e perciò è un fatto liberatore. La vera, la grande poesia, finisce sempre in preghiera: appunto, la vita stessa è un atto di fede.
Queste mie cose, comunque siano, nascono in un contesto appunto di preghiera. Avevo tentato anni fa di confondere i miei pensieri con gli stessi salmi della Bibbia. Volevo addirittura pregare così, con la liturgia e con il popolo. E meditando precisamente sui salmi avevo composto «preghiere fra una guerra e l’altra». Ma non è possibile rompere secolari abitudini, non è facile liberarci dall’impersonale.
E così la liturgia continua ad essere in dicotomia con la vita, e il culto rischia di andare per conto suo (finché dura), in divorzio con la fede.
Siamo appunto divisi in noi stessi, vite senza sbocco e senza creatività. Eppure sono convinto che questa è la via per uscire dalla maledizione e dal deserto.
David Maria Turoldo
(da Il sesto angelo)