La lettura del Vangelo di Marco mette in discussione le nostre idee su Dio. I capp. 8 e 9 sono una sorta di purificazione del volto di Dio che ci portiamo dentro, che spesso riflette il nostro profilo psicologico. In 8,1-10 viene raccontata la seconda moltiplicazione dei pani, rivolta a una folla pagana, un segno dell’universalità del messaggio e della missione di salvezza di Gesù: l’amore di Dio è per tutti.

Paradossalmente, sono proprio gli uomini della religione a non capire, chiedendogli un segno dal cielo (cfr. Mc 8,11). Loro non vedono, dice il Vangelo, perché hanno il cuore indurito (cfr. 8,17-18). Il problema non sta in ciò che vediamo, ma nei nostri occhi. Non a caso, subito dopo Marco racconta della guarigione di un cieco che solo dopo aver incontrato Gesù comincia a vedere nettamente tutte le cose (cfr. 8,25).

La fede non è questione di prove o dimostrazioni, ma è questione di sguardo, di come vediamo la vita. Lo spiega bene Rowan Williams nella sua introduzione a Marco (Il Dio di Gesù nel Vangelo di Marco, Qiqajon). Nutriamo tutti delle fantasie riguardo a come Dio dovrebbe operare per trasformare il mondo. La voce dal cielo, la poderosa dimostrazione di forza, l’argomento che non ammette repliche, la parola o l’atto che alla fine risolve tutto e fuga ogni dubbio così che non resta altro da aggiungere… Dio sembra tuttavia incurante di tutto ciò…

Il critico letterario Terry Eagleton, i cui recenti libri sulla religione hanno portato un soffio di aria fresca in alcuni dibattiti tra credenti e non credenti, ha osservato che vi sono alcuni (sia all’interno sia all’esterno del cristianesimo) che immaginano che se un giorno dovesse distendersi in cielo un grande striscione recante la scritta: “Sono quassù, cretini!”, ciò costituirebbe una soluzione definitiva del problema dell’esistenza di Dio. Ma ovviamente Dio non opera in tal modo, e una simile immagine ha ben poco a che vedere con ciò che egli sembra volere.

Dio non si preoccupa di dimostrarci la propria esistenza; il nostro problema non è che non sappiamo, ma che non sappiamo amare. Solitamente egli opera, per così dire, “verso l’esterno” dal cuore dell’essere, espandendo costantemente la prospettiva del suo agire tramite le azioni degli esseri che ha creato. Perciò Gesù inizia a suggerire ai discepoli l’idea audace che il modo in cui Dio trasformerà le cose scaturirà dal cuore del mondo umano, non mediante interventi dall’alto.

Dio sta trasformando il mondo, guarendone e le ferite e perdonando e vincendo i nostri fallimenti, ponendosi accanto ai processi del mondo e dentro tali processi. Soprattutto accatto e in quel processo davvero unico rappresentato dalla vita umana: in primis la vita di Gesù, ma poi anche le vite di coloro che sono stati chiamati e incaricati da Gesù a essere, come lui e grazie a lui, luoghi in cui l’opera di Dio può iniziare a fiorire e a espandersi nel mondo».

Dio è dentro la vita, perciò; dentro la vita di Gesù e dentro la nostra, se gli lasciamo spazio. Se non sappiamo vedere questa realtà, è inutile chiedere e cercare dei segni. Ecco perché Pietro formula una confessione perfettamente ortodossa nelle parole (8,29: «Tu sei il Cristo»), ma poi non sa riconoscere che la missione e l’identità di Gesù trovano compimento nel non sottrarsi al passaggio della croce. Pietro non pensa come Dio, ma come gli uomini (cfr. 8,33), ragiona a partire da un’immagine di Dio che sta dentro la logica della potenza e non dell’amore.

Infatti, subito dopo, Marco racconta l’episodio della trasfigurazione, in cui una voce dal cielo dichiara chi è Gesù: «Questi è il Figlio mio, il diletto: ascoltatelo» (9,7). Sembra la dimostrazione che tutti vorremmo. Eppure, nel discendere dal monte della trasfigurazione, Gesù spiega ai discepoli che il suo essere figlio consiste nell’essere disposto a soffrire ed essere disprezzato (cfr. 9,12).

Gesù ha una buona ragione per vivere e per morire: è questo che caratterizza le sue scelte, che lo qualifica. Il suo essere Figlio di Dio non dipende da una voce dal cielo, ma emerge dalla sua vita, da come il suo cuore trasforma quello che gli accade. Persino un evento atroce e senza appello come la morte sul patibolo infame.

Christian Albini